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Il vulcano con i picchi nascosti dalle nubi |
Nella crociera che va dall'isola di Bali all'isola di Komodo, ci si immerge in molte
isole o isolotti. Tra queste ce n'è una che mi è entrata nel cuore,
per la sua bellezza: l'isola di Sangeang.
Belli i suoi fondali di sabbia nera vulcanica, fine, che entra ovunque, che ti costringe a
controllare e pulire tutti gli o-rings dopo ogni immersione. Un paradiso per
nudibranchi di molte specie diverse, che si incontrano sia sul sabbione nero degradante, che
sulla piccola parete a sud, un precario agglomerato di sabbia, sassi e corallo, che
lentamente si sta sgretolando e rotola a valle, sotto la pressione di nuova sabbia e
terra che il vulcano, ancora attivo, spinge senza sosta verso il mare.
La parete termina su un fondale compreso tra i -18 ed i -22 metri; da lì parte
il declivio sabbioso, punteggiato da piccoli blocchi di corallo.
Crinoidi coloratissimi sono aggrappati ovunque, si stagliano sulla parete scura, tra alcionari, coralli e spugne.
Ogni buco, ogni anfratto, è tana di qualche pesce. Agli estremi della parete, battuti dalle correnti e
sulla sua sommità, i coralli formano un giardino dai colori infiniti.
Purtroppo una parte di questa parete è oggi crollata. E' sufficiente la pressione dell'acqua smossa
da un'energica pinnata, per creare piccole frane, per far cadere sul fondo sassi e coralli in un una nube di
polvere nera.
Qui, l'anno scorso, c'era la tana di un piccolo pesce rana, bianco dalle macchie rosse, le cui foto sono visibili
nella sezione dedicata alla prima crociera da Bali a Komodo. Di quel bellissimo e raro esemplare si è persa
così ogni traccia.
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Vista dell'isola nel pomeriggio |
Sangeang è un vulcano con due crateri che sfiorano i 2000 metri,
separati da una profonda vallata verdeggiante.
Ricordo la prima volta che ho visto quest'isola: ero stato svegliato, alle prime luci dell'alba, dopo una
notte di navigazione, dal profumo di croissants appena sfornati. Fitte nuvole basse nascondevano le sue cime;
intravvedendo nella foschia la vallata tra i due picchi, ho pensato che se King Kong fosse esistito,
allora avrebbe scelto casa proprio qui, in questa valle profonda, nascosta, all'ombra dei due alti crateri.
Solo nella tarda mattinata il sole riesce a dissolvere le fitte nubi, ed
allora Sangeang ti appare in tutta la sua bellezza, con le sue
sfumature di colori, gli alti picchi dei crateri, i crinali ed i canyons
che scendono verso il mare. Alcune palme ed altri alberi aggiungono del
verde alle mosse colline che si stendono ai piedi del vulcano. Sul lato sud-ovest si possono
vedere alcune zone recintate per il bestiame ed i piccoli terreni coltivati dai circa 100 abitanti
del primitivo villaggio, le loro piroghe allineate sulla breve spiaggia.
Scendendo a terra, poche persone ci vengono incontro, quasi tutte avvolte nei loro
sarong. Soprattutto vecchi, donne e bambini. Qualche cane abbaia, i polli continuano a beccare tra i
sassi e la polvere. Le capanne sono di legno, sollevate da terra con corte palafitte. I tetti di
paglia, spioventi, riparano dalla pioggia e dal sole.
Una donna lavora su un profondo mortaio in legno, con un
lungo pestello, un bambino aggrappato al suo sarong. E' una scena tipica, comune a mezzo mondo. La puoi
vedere in tutti i villaggi africani e asiatici: lo stesso mortaio, lo stesso pestello, lo stesso incessante
movimento ripetuto all'infinito.
La gente ci accoglie sorridente. I bambini sgranano gli occhi, non so se più incuriositi o spaventati.
Non sono frequenti i visitatori su questa piccola isola.
Noto la mancanza di uomini, probabilmente sono al lavoro: alcuni pascolano il bestiame, mucche
e capre, ma la maggior parte è in mare, su piccole piroghe scavate nei tronchi, con un bilanciere
di bambù per assicurare stabilità. Quasi tutte le piroghe hanno un corto albero su cui issare
vele colorate triangolari. Partono alle prime luci dell'alba e tornano al tramonto con il loro bottino, pochi pesci
catturati con semplici lenze. Altri si spingono fino all'isola di Sumbawa, a qualche decina di miglia, per i loro
traffici e commerci.
Al ritorno, se il vento non è favorevole, toccano terra dove possono, poi proseguono a piedi tra rocce e
sassi, trainando, con una lunga cima, la loro piroga contro vento.
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Una donna con il tipico mortaio |
Ripartendo da Sangeang, ho chiesto conferma che ci saremmo ripassati
sulla via del ritorno, verso Bali.
«Certo» mi hanno risposto «e faremo un'immersione notturna un po' particolare...»
«Ovvero?» ho chiesto incuriosito.
«Mah, è una cosa nuova, che non abbiamo mai fatto prima. E' un'idea nata vedendo
un documentario della BBC. L'idea sarebbe questa: ci fermiamo alla
deriva sul lato nord dell'isola, dove il fondale sprofonda a circa 2000
metri. Caliamo delle cime di circa 20 metri in acqua con delle luci, e
li ci appendiamo, in attesa di vedere se di notte risalgono dagli abissi
strane creature...»
L'idea era curiosa ed affascinante. Magari l'occasione di scattare
qualche foto davvero 'unica'. Al momento non ho soppesato bene la cosa;
ci avremmo ripensato tra qualche giorno, sulla via del ritorno, mare e
vento permettendo questo esperimento.
I giorni sono passati in fretta, ed eccoci di ritorno a Sangean.
Era già buio quando la barca ha spento i motori e si è fermata cullata dalle
onde. La corrente non sembrava forte. La barca andava lentamente alla
deriva, spinta da un leggero vento.
La luna non era ancora sorta ed il buio era totale.
Alcuni membri dell'equipaggio provvedono a calare quattro cime con un bel
piombo e dei potenti faretti in fondo. Due cime a metà barca e due a
prua, a circa 10/12 metri di distanza. Questo avrebbe dovuto garantire la visibilità fra i vari gruppi
in immersione.
Noi cominciamo ad infilarci le mute ed a prepararci. Il programma è di avere due subacquei per ogni
cima, per un tempo massimo di 30 minuti, per dare tempo a tutti di provare quest'immersione.
Ed ora comincia il bello... Già, perchè un conto è pensare di fare una
cosa, un altro l'infilarsi la muta, sapendo che in pochi minuti sarai appeso nel 'nulla'...
Uno dei partecipanti, editore di molti libri subacquei (avete in mente quei tre libri sui Caraibi, rilegati con una spirale?)
ha la bella idea di raccontare che una volta, in non ricordo quale parte
del Pacifico, è stato afferrato da un calamaro gigante ed ha combattuto
strenuamente afferrato ad una cima, finchè il calamaro ha mollato la presa.
Bel tempismo, proprio il momento giusto per un racconto simile...
Finalmente siamo pronti. Col mio compagno decidiamo di nuotare in
superficie fino alla nostra cima, a prua, e li immergerci.
Entro in acqua e comincio a nuotare verso prua, lungo lo scafo. Mi volto
e non vedo il mio compagno, piccole onde me lo nascondono. Guardo in alto, cerco la
moglie, forse lei dall'alto lo vede. No, non lo vede neanche lei. Guardo
in basso e vedo che si è già immerso e nuota verso la cima. Mi immergo
anch'io e raggiungo la cima. Scendiamo a 20 metri e ci fermiamo,
cominciando a guardarci attorno...
Siamo praticamente avvolti da una nube
di plancton. La visibilità è ridotta, a stento si vedono le luci provenienti dalle
altre cime, bagliori verdi spettrali che si muovono lanciando coni di
luce che si perdono nella fitta sospensione. Appare subito chiaro che in
quelle condizioni sarà molto difficile fotografare. Non resta che osservare
la miriade di piccoli organismi che ci circondano, cercare di penetrare con lo sguardo in quell'oscurità,
attraverso la 'nebbia' di plancton.
Il mio compagno, senza dirmi niente, comincia a risalire lungo la cima.
«Forse controlla la visibilità più in superficie» penso io, e ritorno all'osservazione:
larve, vermetti, microorganismi biancastri e fluorescenti mi avvolgono,
di tutte le forme, come piccoli fiocchi di neve, ognuno diverso
dall'altro.
Provo ad osservare attraverso l'obbiettivo fotografico, ma
l'autofocus non può operare in quelle condizioni. Tutto è in movimento, io compreso,
sospinto da una leggera corrente.
Meglio dimenticare la macchina fotografica e gustarsi quella strana sensazione di essere
sospesi sugli abissi.
Passa qualche minuto; guardo in alto e non vedo più il mio compagno. Nessuna luce
sopra di me, non vedo neanche il grosso scafo della barca, troppo poca
visibilità. Ed allora mi sorge un dubbio: mi sembra così paradossale la mia
situazione, che per un momento penso possa essere tutto uno scherzo. In effetti la luce della mia
cima è molto più in basso dei 20 metri previsti.
«Vuoi vedere che siamo su un fondale sabbioso di 30 metri? Che è tutto
uno scherzo ben organizzato?»
Scendo lungo la cima fino in fondo; giunto alla fine, a 32 metri, guardo
in giù. No, nessun fondale sabbioso in vista. Solo il nero totale, e la
nuvola infinita di plancton.
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Pirosoma - l'unica foto che ho scattato, un tunicato planctonico
bioluminescente Pyrosoma sp. |
Risalgo a 20 metri e mi fermo. Ora mi sono abituato a questa situazione, il
disagio iniziale è passato. La cima mi da sicurezza, mi stacco solo per
brevi attimi, per osservare meglio qualche organismo più grosso che
passa a qualche metro. E poi ci sono i tenui bagliori verdastri di altre
torce, testimoni che altri sono nelle mie condizioni, che non sono solo.
Mi guardo intorno a 360° e provo una strana sensazione, nuova.
Non è la solita sensazione di essere sott'acqua di notte. L'assenza di peso, il buio, la mancanza
di ogni riferimento, mi fanno sentire come un astronauta circondato dalla
via lattea. La cima è il mio cordone ombelicale con la navetta spaziale, attorno a me
l'infinito, buio e misterioso.
Si, perchè poco importa se sotto di te ci sono 100, 1.000, 10.000 metri
o l'infinito. Non hai riferimenti. E' difficile mentalmente
'posizionarti' su un piano tridimensionale, in queste condizioni. C'è solo il buio, il nulla
(o il tutto?) Sai che la luce della tua torcia ti consente di spaziare solo su
una parte infinitesimale di quanto ti circonda, che la tua visione è parziale,
falsata, riduttiva. Sotto di te ed attorno a te, c'è un mondo più grande, la
cui visione e conoscenza ti è preclusa.
Si, mi sono sentito più astronauta in una sperduta galassia, che subacqueo avvolto dalle
tiepide acque indonesiane.
Mi perdo in questi pensieri, avvolto nella nube di plancton,
testimone di quanta vita sia impregnato questo mare, che ora vedo per
la prima volta da un differente punto di vista. La vita pullula ovunque,
anche in quel buio senza fine, in un punto sperduto dell'oceano. Ma
quanta vita racchiude questo mare? La mente si perde di fronte a queste
dimensioni, troppo grandi per essere quantificate e razionalizzate.
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Vista di Sangeang, al tramonto, dall'isola di Banta |
Guardo il computer. Sono passati solo 15 minuti, eppure il mio viaggio
nella via lattea, negli spazi infiniti, mi sembra durato ore.
Rifaccio un rapido controllo della situazione. Del mio compagno ormai ho
perso ogni traccia. Vedo, dall'altra parte dello scafo, delle luci che
si muovono. Decido di andare a vedere cosa stanno facendo gli altri, se
hanno visto passare qualche strana creatura, qualcosa di interessante.
Mollo la cima, lascio il mio cordone ombelicale, e nuoto velocemente
verso la luce della cima più vicina, tenendo d'occhio il computer, per mantenere la stessa quota.
Ma non c'è nessuno. La luce della cima, mossa dalla corrente, mi aveva ingannato, credevo fosse la torcia
di qualcuno.
Vedo un'altra luce e nuoto verso di essa. Stessa storia,
una cima senza nessuno, il suo faretto che ondeggia con la corrente.
Non mi resta che controllare la quarta cima, sul lato dello scafo da cui
sono partito.
Anche li non trovo nessuno. Sono spariti tutti.
Controllo il computer: sono passati 20 minuti. Ho ancora 10 minuti a disposizione, ma ora il sapere che sono
solo mi mette a disagio. Strano come la nostra mente si aggrappi a
queste cose, per acquistare fiducia. Se dagli abissi fosse arrivato
qualcosa di veramente grosso e minaccioso, la presenza di qualcuno ad una decina di
metri, che in ogni caso non ti vedeva, non avrebbe fatto differenza.
Ma ora mi chiedo dove siano finiti gli altri, come mai non ci sia più nessuno in acqua, tranne me.
E se fosse successo qualcosa, qualche imprevisto di cui non mi sono reso conto?
Decido di risalire. L'incantesimo si era rotto, tempo di tornare
in superficie.
A bordo c'erano tutti. Alcuni già asciutti e rivestiti.
«Sono uscito perchè avevo freddo, avevo fame, troppa sospensione per
fotografare», queste le loro giustificazioni. Sembravano tutti tornati
da una banale scampagnata...
Ancora una volta ho sperimentato come la gente sia restia ad esternare
le proprie emozioni. E come ognuno viva a modo suo certe esperienze, a
volte troppo personali ed intime per poterle tradurre pienamente con
semplici parole.
Io ci ho provato, con il racconto di questa immersione notturna.
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